Volver a BLOG

Enogastronomia

EFFETTO MOZART

Allegria, festa, spensieratezza e gente che sta bene assieme condividono da sempre un binomio inscindibile: musica e vino.

Questi due elementi hanno caratterizzato la storia dell’uomo sin dai tempi degli antichi Romani in cui durante le “baccanali”, festività dedicate al dio Bacco, la musica suonata alle cerimonie del vino prendeva vita.

Senza di essi la vita sarebbe stata senz’altro più monotona e triste, non vi pare?

Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona

Nel 1993 i fisici Gordon Shaw e Frances Rauscher sono raggiunti alla conclusione che l’ascolto della Sonata in re maggiore per due pianoforti (KV 448) di Wolfgang Amadeus Mozart avrebbe causato un temporaneo aumento delle capacità cognitive di un gruppo di volontari.

E’ la teoria ”effetto Mozart”.

https://youtu.be/9iePyP2HOr8

Ci sono dei limiti all’effetto Mozart?

Gli esperimenti e gli studi sul legame tra la musica e la crescita delle piante sono iniziati secoli fa nell’antico Oriente.

Oggi, molte ricerche dimostrano scientificamente che la musica fa bene alle piante, purché non sia troppo invasiva né con eccessi di volume.

Ma quale tipo di musica? Quella classica sembra esserne la “preferita”.

Se le cose stanno così, la musica potrebbe far buon vino?

La musica è un’onda vibratoria e quando incontra l’onda vibratoria che c’è nella pianta stessa si crea la risonanza, che a sua volta crea un metabolismo accelerato, grazie al quale si hanno più foglie e più rigogliose, più germogli, e quindi grappoli migliori.

Gli insetti se ne stanno solo pochi attimi, perché c’è la musica, e si spostano quindi altrove.

https://youtu.be/UosbzvpJRbc

Adesso che abbiamo ottenuto un ottimo vino, poniamoci un’altra domanda.

E’ possibile abbinare la musica al vino? Proviamoci …

Rock e vino rosso caldo, avvolgente:  il rock è rosso, intenso!

Pop e vino bianco fresco e leggero: il pop ha lo stesso spirito dei migliori vini bianchi: “fragranti e di note floreali”.

Jazz e spumante: complicato da suonare e semplice da ascoltare, ma sempre frizzante come lo spumante!

L’accoppiata musica e vino sono due compagni fedeli di tanti momenti della nostra  vita, emozionandoci ogni giorno.

Quindi … “libiamo ne’ lieti calici”…

https://youtu.be/l7eHO_PEWLk

CARBONARA, GRICIA O AMATRICIANA?

“Oggi che mangiamo?”  Tris amatriciana carbonara gricia - Foto di Bar Ristorante del Cavallino, Roma - Tripadvisor

Quante volte abbiamo sentito o fatto questa domanda?

Sembra una domanda banalissima e, invece, racchiude tanto della nostra cultura. Perché è vero che “siamo ciò che mangiamo”, ma è anche vero che le proprie origini si rivelano spesso a tavola.

La gastronomia del Lazio deve molto alla tradizione popolare.

Le zone di campagna hanno influito notevolmente: dal Reatino arrivano le paste fatte col ferretto, paste sbriciolate in piccoli pezzettini usate per le minestre e paste lavorate con vecchie tecniche come i  “maccheroni a matasse”. Dalla Ciociaria arrivano le infinite varietà di fettuccine.

Per non parlare dei condimenti tipici della regione: “pajata”, l’intestino del vitello da latte con cui si accompagnano i “rigatoni” (grossi maccheroni rigati); “ajo e ojo” (aglio e olio) protagonista delle spaghettate in compagnia; “cacio e pepe”, in uso da tempi antichissimi.

Alcuni capisaldi della gastronomia italiana provengono dal Lazio ed oggi cercheremo di scoprire i segreti e la storia di tre ricette.

Incominciamo dalla “Carbonara” le cui origini si trovano nella zona meridionale della regione chiamata Ciociaria: il suo nome deriva dalle ciocie, caratteristiche calzature portate un tempo da contadini e pastori.

I suoi centri principali sono Frosinone, Anagni, Ferentino, Alatri, Veroli, Ceccano, Sora.

https://youtu.be/tq9f1ykCQ8E

Per alcuni, la Carbonara sarebbe nata nel 1944 dall’incontro fra la pasta italiana e gli ingredienti della ‘Razione K’ dei soldati americani.

https://youtu.be/wLoonrw1SIs

Una seconda ipotesi ne attribuisce la paternità ai carbonai appenninici (carbonari in romanesco), che lo preparavano usando ingredienti di facile reperibilità e conservazione.

Origini a parte, per i puristi la carbonara, come la mangiamo oggi, ha solo 5 ingredienti canonici: pasta, guanciale, pecorino, uovo e pepe.

Per un piatto così ricco di sapori la scelta del vino da abbinare ricade su un vino bianco di buona freschezza come uno Chardonnay.

Se, invece, preferite il vino rosso è adatto un Merlot del Lazio.

https://youtu.be/7cM9saLHTnM

Andiamo a ritroso nel tempo per trovare una ricetta estremamente semplice consumata anticamente dai pastori del Lazio, i cui due ingredienti principali sono il guanciale e il pecorino: la Gricia.

Questo piatto richiede al suo fianco un vino che si sposi bene con la sapidità del pecorino e con la grassezza del guanciale, cioè un bianco come il Trebbiano d’Abruzzo.

https://youtu.be/VdhAQBknObc

Ci spostiamo adesso ad Amatrice, in provincia di Rieti, città colpita fortemente dal terremoto ad agosto del 2016 e a gennaio 2017.

Ecco com’era prima del sisma:

https://youtu.be/3yD2AAaU35M

Nella cucina romana è famoso il “sugo all’amatriciana” che, nella versione primitiva dei poveri pastori, prevedeva soltanto guanciale e pecorino.

Successivamente, con l’arrivo del pomodoro dalle Americhe, fu aggiunto alla ricetta assieme all’olio d’oliva.

Senza ombra di dubbio un vino rosso deciso come il Montepulciano d’Abruzzo si sposa benissimo con il sugo corposo dell’amatriciana.

https://youtu.be/yx4FOLO_TQY

CIBO DI STRADA, IERI E OGGI

“Mangio qualcosa al volo” sembra un’espressione adatta alla frenesia della nostra quotidianità.

Invece, già da tempi molto lontani, la cultura alimentare ha a che fare con le strade: infatti la strada stessa è stata un veicolo di diffusione delle abitudini alimentari dei popoli.

All’epoca dei Romani gran parte della popolazione consumava i pasti in piedi in locali semi aperti sulla strada. A Pompei rimangono vestigia delle taverne che erano meta dei viaggiatori di passaggio, ma erano anche numerosi i venditori ambulanti che offrivano pane, frittelle, salsicce, ecc.

Il primo mercato romano di specialità gastronomiche è stato realizzato ai tempi di Giulio Cesare. Era un grande edificio di forma quadrata nel cui cortile interno si aprivano piccoli negozi.

Ma la vera innovazione fu quella di Marco Ulpio Traiano, divenuto imperatore nel 98 d.C., che fece grandi lavori a Roma e costruì un insieme di edifici articolati su più livelli: i Mercati Traianei.

Il progetto di questo primo centro commerciale coperto della storia fu affidato nel II secolo ad Apollodoro da Damasco.

https://youtu.be/xKDArdktteY

Successivamente nacquero le fiere, cioè  un’aggregazione di venditori ambulanti che, a scadenze prefissate del calendario civile o religioso, si riunivano per offrire i loro prodotti.

Durante il Rinascimento e fino all’inizio del XIX secolo il mercato svolse un ruolo significativo nella vita cittadina e fu anche oggetto di opere pittoriche del ‘500 e del ‘600, in cui si celebrava l’abbondanza proveniente dal commercio.

Lo sviluppo dell’industrializzazione e l’entrata delle donne nel mondo del lavoro fuori dall’ambito familiare, fece in modo che il fenomeno del cibo di strada aumentasse.

Ai primi dell’Ottocento si diffuse una versione innovativa del mercato coperto con la presenza di insegne commerciali poste all’esterno degli edifici per catturare l’attenzione dei possibili compratori.

Olive all’ascolana marchigiane, piadina romagnola, focacce liguri, castagnacci toscani, porchetta romana, pani ca’ meusa (pane e milza) palermitani, sono alcuni esempi della tradizione del cibo di strada italiano, e si potrebbe andare avanti con l’elenco coinvolgendo tutte le regioni.

Il cibo di strada diventa anche un modo di comunicazione perché, sebbene si consuma quando si è da soli, lo si fa per strada o in locali aperti di cui spesso e volentieri si diventa clienti abituali e si può scambiare un saluto o una battuta con altri avventori.

https://youtu.be/0Q8omDrlU7U

Lungo la strada non viaggiano solo gli uomini, ma le loro idee, i loro costumi e i loro gusti.

DALLA CERVOGIA ALLA BIRRA

Tutte le volte che abbiamo detto “andiamo a prendere una birra”, ci siamo mai soffermati a pensare alla parola “birra”?

Le sue origini vanno cercate nel mondo celtico: la parola birra, in tedesco “bier”, in francese “bière”, derivano probabilmente dalla stessa radice del celtico “brace” che secondo Plinio indicava una specie di cereale fermentato e bruciato al fine di ottenere una bevanda.

L’italiano antico “cervogia” e lo spagnolo “cerveza” si rifarebbero invece al celtico “ceruesia” cioè il colore di una birra scura.

La prima prova sulla produzione di una bevanda simile alla birra risale al 3700 a.C. circa e fu diffusa dai Sumeri, gli Assiro-Babilonesi e gli Egizi.

In Italia i primi estimatori della birra furono gli Etruschi, invece i Romani prediligevano il vino.

Apprezzata dai popoli germanici e celti, la birra si diffuse con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, diventando il simbolo della cultura britannica.

Nel Medioevo il processo di birrificazione si trasferì dentro le mura dei monasteri: si preparava una birra “leggera”, adatta ad essere consumata quotidianamente, e una birra ad alto contenuto alcolico, destinata alle occasioni speciali.

https://youtu.be/UUfZA1RZf0Q

Dopo il Mille la birra riscosse grande popolarità presso tutte le classi sociali ed il Seicento fu il secolo in cui la birra si affermò come bevanda nazionale in Germania, Inghilterra, Danimarca e Olanda, cioè i Paesi che diventeranno i suoi principali produttori.

A fine ‘800 i produttori d’oltralpe in cerca di nuovi mercati approdano in Italia ed avviano i primi stabilimenti per l’elaborazione di questa bevanda.

Questa produzione subirà una battuta d’arresto durante la Prima Guerra Mondiale. A fine conflitto si riprenderà per fermarsi ancora una volta durante la Seconda Guerra Mondiale per mancanza di materie prime. Solo dopo gli anni ’60 la birra diventerà molto popolare anche in Italia.

Cos’è la spillatura? E’ il modo in cui si versa la birra dalla spina al bicchiere. E’ molto importante conoscere come spillare una birra perché si tratta di un processo che può cambiare radicalmente il gusto di questa bevanda.

Parleremo in seguito delle diverse modalità di spillatura, occupiamoci  adesso della scelta del bicchiere.

I bicchieri da birra si dividono in due tipi: quelli alti e stretti, più adatti a birre a bassa fermentazione, e quelli larghi e bassi, più adatti invece alle birre ad alta fermentazione.

Prima di spillare la birra è importante lavare e sciacquare bene i bicchieri.

Un altro aspetto da considerare prima  è l’inclinazione del bicchiere, che deve essere di 45 gradi rispetto al rubinetto: la birra non deve toccare mai il rubinetto di erogazione.

Le tecniche di spillatura della birra più conosciute sono quattro: quella tedesca, quella olandese o belga, quella irlandese e quella inglese.

La spillatura alla tedesca viene fatta in 3 tempi e quella belga, chiamata anche olandese, viene fatta in un solo tempo, come vedremo in questo video:

https://youtu.be/M_dRPiAhK9E

La spillatura irlandese è perfetta per le birre Ale o Stout e viene fatta in due tempi:

https://youtu.be/DXxuaiOucDo

La spillatura inglese è una tipologia di spillatura che va a formare pochissima schiuma:

https://youtu.be/1dOjpMQPJ1A

Anche la birra vuole la sua festa e la più popolare è l’Oktoberfest che si tiene a Monaco di Baviera, in Germania, dal penultimo fine settimana di settembre al primo di ottobre.

Questo festival si celebra anche in altre città del mondo ed in parecchie città italiane, tra cui Torino e Cuneo.

L’Oktoberfest di Genova è l’unico evento italiano ufficialmente riconosciuto dalle autorità bavaresi ed è organizzato, ormai dal 2009, dalla birreria Hofbraühaus in collaborazione con il comune della città.

https://youtu.beQ_XjXI/8FYTO

RISO VENERE

Venere, dea della bellezza, dell’amore e della fecondità, è anche il secondo pianeta del sistema solare e non solo … 

Il riso nasce nell’acqua e deve morire nel vino”, così recita un antico proverbio. Cioè, l’acqua della risaia lascia spazio a fine agosto alla raccolta del riso e alla vendemmia del vino per un connubio quasi perfetto. 

 

Marco Polo, nel XIII secolo, portò in Italia anche il riso, ma solo nel XVI secolo iniziò la sua coltivazione estensiva in Piemonte e in Lombardia. 

Il complicato reticolo idraulico di canali che correvano a costa delle risaie per inondarle ad inizio estate, cambiarono il panorama della pianura padana. Infatti, il riso per crescere ha bisogno di una temperatura costante garantita dal cuscinetto d’acqua. 

A seconda delle sue caratteristiche il riso viene chiamato in diversi modi: Arborio, Carnaroli, Balilla, Roma, ecc. 

Negli anni ‘70 e ‘80 del Novecento sono state selezionate altre qualità o ibridi come il riso Venere (nero).  

Risultato dall’incrocio tra una varietà asiatica di riso nero e una varietà della pianura padana, è stato denominato Venere perché in Oriente gli vengono attribuite proprietà afrodisiache. 

https://youtu.be/mxfruNTnT2M 

 

Profumato e saporito, è una varietà di riso integrale molto pregiata, ricco di vitamine, minerali e antiossidanti ed ha il vantaggio di non contenere glutine. 

Grazie al suo colore ebano scuro permette la realizzazione di piatti molto belli e vivaci da presentare. 

ANDIAMO NEL CHIANTI

Andiamo nel territorio del Chianti, il cuore della Toscana, nella zona tra Firenze, Siena ed Arezzo. 

https://youtu.be/xLCZxSyEl3U 

 

Gli etruschi iniziarono il disboscamento della zona del Chianti per recuperare zone coltivabili e sembra che siano stati proprio loro ad introdurre la coltura della vite. 

Anche nelle pergamene ritrovate nella chiesa di Santa Caterina a Lucignano, risalenti al 913 d.C., si parla di vinificazione in Chianti. 

Nell’epoca del sorgere dei Comuni, il commercio del vino fu un’importante fonte di ricchezza, tanto che a Firenze, nella seconda metà del Duecento, fra le arti minori fu fondata quella dei Vinattieri. Il consumo del vino in questi anni non è più limitato alle tavole signorili, ma entra nell’uso popolare. 

Il termine Chianti comparirà solo alla fine del XIV secolo: prima il vino toscano era denominato “vermiglio” se rosso e “vernaccia” se bianco. 

 

Dal punto di vista storico il nome inizialmente identificava i territori appartenenti all’antica Lega Militare Fiorentina del Chianti, ovvero i terzieri Gaiole, Radda e Castellina in Chianti. 

La Lega del Chianti è un’antica istituzione del territorio chiantigiano che ha origine nel Medioevo e fu voluta espressamente dalla Repubblica Fiorentina per difendere tutti i suoi confini a sud. 

Era un’istituzione militare che risiedeva a Radda, presieduta da un Capitano Generale che aveva pieni poteri su tutti i territori. 

Dal 1378 si conosce lo statuto della Lega del Chianti che regolava la vita sociale e prevedeva che non si poteva raccogliere l’uva sangiovese prima della festa di San Michele, cioè il 29 settembre. 

La Lega perse il suo ruolo militare dopo la conquista da parte di Firenze di tutti i territori con l’inclusione della città di Siena e della sua provincia. 

Oggi, anche in virtù della legge sulla denominazione dei vini, con l’espressione “chianti” si intendono i territori dei tre comuni della Lega, i comuni fiorentini di San Casciano e Tavernelle in Val di Pesa, Greve in Chianti e parte di Barberino in Val d’Elsa, i comuni senesi di Castelnuovo Berardenga e Poggibonsi. 

 

Lo sviluppo di Barberino in Val d’Elsa fu legato soprattutto al fatto di essere sulla Strada Regia Romana che collegava Firenze con Roma. 

https://youtu.be/YjfCzZaevVM 

 

Poggibonsi è un comune della provincia di Siena. 

I primi reperti di insediamenti umani nel territorio sono preistorici, ma i più importanti risalgono all’epoca etrusco-romana. 

Il suo incremento demografico si verifica fra il X e il XII secolo quando Poggibonsi, in seguito al nuovo tracciato della Via Francigena, venne a trovarsi direttamente inserita su questa arteria stradale. 

https://youtu.be/WQSX51ARQ1M 

 

A questo punto è d’obbligo assaggiare il vino di questo territorio, ma prima cerchiamo di capire le differenze e le similitudini fra il Chianti Classico ed il Chianti. 

https://youtu.be/D3e6PxOPgjI 

 

LA PORCHETTA DI ARICCIA

“Fa’ in prima che sia ben pelata in modo che sia biancha et netta. Et poi fendila per lo deritto de la schina (schiena) et caccia fore le interiori et lavala molto bene. et dapoi togli i figatelli de la ditta porchetta, et battili bene col coltello inseme con bone herbe, et togli aglio tagliato menuto, et un pocho di bon lardo, et un pocho di caso (cacio) grattugiato, et qualche ovo, et pepero pesto, et un pocho zafrano, et mescola  tutte queste cose, et mettele in la ditta porchetta, reversandola (rovesciandola) a modo che si fanno le tenche (tinche) , cio è ponendo quello di dentro di fori. Et dapoi cusila inseme (cucila insieme) et legala bene et ponila accocere nel speto, o vero su la graticola. Na falla cocere adascio che sia ben cotta così la carne come etiamdio il pieno. Et fa’ un pocha si salamora con aceto, pepero et zafrano, et tolli doi o tre ramicelle de lavoro, o salvia, o rosmarino, e gietta spesse volte di tal salamora in su la porchetta. Et simile si pò fare de oche, anatre, gruve, capponi, pollastri,  et altri simili”.

Dal libro “De arte coquinaria” di Mastro Martino da Como del XV secolo.

Piatto tipico dell’Italia centrale, la porchetta  consiste in un maiale intero, svuotato, disossato e condito.

Gli abitanti di Ariccia, nel Lazio, rivendicano la paternità della ricetta originaria, ma in Umbria si sostiene che sia nata a Norcia, famosa sin dai tempi dei romani per l’allevamento del maiale, e nell’Alto Lazio la si fa risalire addirittura all’epoca degli etruschi.

Ariccia, una delle località  dei Castelli Romani, non è soltanto conosciuta per la porchetta, ma anche  per l’importanza storica ed architettonica delle opere del Bernini  e per Palazzo Chigi.

Il palazzo, edificato dalla famiglia Savelli alla fine del ‘500, passò poi ai Chigi che portarono avanti i lavori di ampliamento sotto la direzione di Gian Lorenzo Bernini tra il 1661 ed il 1672.

https://youtu.be/KTntTGUG2ms

Attualmente il palazzo ospita il Museo del Barocco Romano:

https://youtu.be/oLUqFRdCCb0

La tradizione vuole che esistano due tipi fondamentali di condimento della porchetta, a seconda del luogo di elaborazione. Nei Castelli Romani, in Sabina e nelle altre aree del centro Italia si aromatizza con il rosmarino, mentre in Umbria, Marche e Romagna si utilizza il finocchio selvatico.

Come si fa la porchetta?

https://youtu.be/u4L6uXGhO1o

IL TARTUFO

Esiste un tipo di cacciatore le cui armi sono una piccola vanga e dei cani ben addestrati: sono i cacciatori di tartufi.

Il nome scientifico è tuber, ma non deve trarre in inganno perché il tartufo non è un tubero, bensì un fungo che vive sottoterra.

L’origine del nome “tartufo” è incerta. Alcuni sostengono che derivi da terrae tufer, che letteralmente significherebbe “escrescenza della terra”.

In natura esistono numerose specie di tartufo, ma non tutte sono pregiate e commestibili. Quelle commestibili e disponibili sul mercato sono: il tartufo bianco pregiato, il tartufo Bianchetto, il tartufo nero pregiato, il tartufo nero estivo, il tartufo nero invernale e il tartufo nero liscio.

Pochi hanno la possibilità di seguire un cacciatore di tartufi, ma noi andremo a conoscere alcuni segreti del tartufaio:

https://youtu.be/NSicNYv2oJY

Il tartufo nero ha un profumo più delicato ed un sapore quasi dolce, mentre il sapore di quello bianco è più intenso.

Anche il loro prezzo sul mercato è differente, essendo quello del tartufo bianco ben più alto.

Infine, anche il loro utilizzo in cucina è diverso: il tartufo bianco va affettato direttamente sul piatto ancora caldo e così sprigionerà meglio i suoi aromi, mentre il tartufo nero può essere usato anche parzialmente in cottura per ottenere il massimo di aroma.

Vogliamo pensare ai vini da abbinare con  il tartufo?

Quando il tartufo accompagna piatti di pasta, uova o carne cruda l’abbinamento ideale è con i vini bianchi. Mentre i rossi sono un’ottima soluzione quando il tartufo guarnisce un piatto a base di carne rossa alla brace o in umido.

Anche gli spumanti possono essere presenti quando il piatto è accompagnato da una componente grassa e/o fritta.

Buon appetito!

 

IL ROSMARINO

Verde tutto l’anno, mostra foglie aguzze ma in realtà morbide, il rosmarino (Rosmarinus officinalis) era considerato dai popoli antichi una pianta dalle doti aromatiche e terapeutiche e fino al II secolo d.C. non fu usato come ingrediente di cucina.

Alcuni sostengono che il suo nome derivi dal latino ros (rugiada) e maris (del mare), altri ritengono che la sua origine provenga dal greco rops (arbusto) e myrinos (odoroso).

Secondo gli Egizi era un elemento magico, i cui rametti erano in grado di procurare l’immortalità; invece per i Romani era il simbolo della morte e dell’amore.

Nel XVII secolo alla corte di Francia era di moda una preparazione detta “Acqua della Regina d’Ungheria”, fatta distillando due parti di fiori di rosmarino e tre di alcol, che veniva usata sia per curare la gotta che per profumarsi la pelle.

Se volete preparare il liquore con questa erba aromatica dovete far macerare in un vaso 40 g. di foglie fresche di rosmarino assieme a 10 g. di scorza di limone e 70 g. di alcol a 95º per sei giorni, agitando una volta al dì.

Quindi, filtrate il liquido e aggiungete 1 litro di vino bianco e lasciate riposare per altri due giorni.

E’ un ottimo digestivo se bevuto fresco dopo i pasti.

Il rosmarino era una pianta dedicata a Venere ed era ritenuto anche  afrodisiaco. Infatti il “bagno di rosmarino” era indicato per stimolare la circolazione sanguigna e rendere molto sensibile al tatto la pelle.

https://youtu.be/YuN67veRSAI

L’ ALLORO

Dal celtico lauer (sempre verde), l’alloro nell’antica Grecia era una pianta sacra ad Apollo.

Secondo la leggenda,  Apollo si era invaghito di Dafne, ma la ninfa, impaurita, invocò l’aiuto degli dei, che la trasformarono in alloro.

In seguito, Apollo dichiarò sacra questa pianta che divenne simbolo di pazienza, gloria e trionfo.

Il dio, inoltre, cingendosi il capo con una corona d’alloro, stabilì che tutti coloro che si fossero distinti per atti eroici avrebbero potuto fare altrettanto.

Infatti, i vincitori delle prime Olimpiadi del 776 a. C. furono incoronati con l’alloro.

In età romana le corone di alloro cingevano i capi dei poeti, dei consoli, dei letterati e degli imperatori.

Oggi viene insignito con il termine “laureato” chi porta a termine un percorso di studi universitari.

https://youtu.be/N1a4ZR0cVl4

Nel passato la pianta di alloro era considerata un medicinale contro l’emicrania, la gotta, l’asma e la febbre.

Le sue foglie secche venivano messe negli armadi per tenere lontani gli insetti, mentre quelle fresche erano inserite tra le pagine dei libri per impedirne l’ingiallimento.

Nell’attualità l’alloro si utilizza in cucina per aromatizzare carni e pesci, per preparare decotti rinfrescanti e dalle qualità digestive, o viene trattato con l’alcol per ricavarne un profumato e aromatico liquore.

La pianta di alloro non ha bisogno di cure particolari e si sviluppa bene anche in vaso.

Quando fiorisce è un’importante fonte di nettare e polline per le api.

IL LAMBRUSCO

Poeti e scrittori classici come Virgilio e Catone raccontano di una Labrusca vitis, cioè un vitigno selvatico che cresceva ai margini delle campagne, e Plinio il Vecchio le attribuiva virtù medicinali.

Dal Rinascimento in poi le testimonianze sul Lambrusco si fanno sempre più presenti.

Le uve del lambrusco sono nere, coltivate maggiormente in Emilia Romagna (Modena, Reggio Emilia e Parma) e in Lombardia nella provincia di Mantova.

https://youtu.be/H70fxUxd6Eg

Solo nel ‘700 apparirà la parola Lambrusco per indicare l’ottimo vino ottenuto dalle viti omonime.

Nel 1867 l’enologo Francesco Aggazzotti stilò una suddivisione delle tre tipologie dei vitigni coltivati: il lambrusco della viola o di Sorbara, il lambrusco Salamino e il lambrusco dai graspi rossi.

Ai primi del ‘900 il lambrusco era un vino secco e la schiuma era prodotta mediante una seconda fermentazione in bottiglia.

Con l’introduzione del metodo Charmat, la produzione aumentò a partire dagli anni ’60.

Sempre nel Novecento nascono diverse attività consortili fino ad arrivare all’odierno Consorzio Tutela Lambrusco DOC.

https://youtu.be/cuoP_qSgo7k

Il Lambrusco, essendo un vino rosso frizzante di bassa gradazione alcolica, si abbina perfettamente ai prodotti tipici della cucina emiliana, ricchi di grassi e aromi (carne di suino, salsicce, agnello) ed anche ai formaggi locali.

Inoltre viene anche utilizzato nella preparazione di piatti come lo zampone e il cotechino, e primi come il risotto al Lambrusco e la pasta al Lambrusco.

 

‘NDUJA E FINOCCHIONA

Spilinga, un piccolo comune nella provincia di Vibo Valentia in Calabria, il cui nome derivante dal greco significa “grotta”, è conosciuta principalmente per un prodotto tipico della regione, inimitabile per il suo sapore particolare e l’intenso profumo: la ‘nduja.

Nei robusti piatti  della Calabria il maiale la fa da padrone ed essendo questa la regione del peperoncino, il loro abbinamento ha dato luogo a questo insaccato piccantissimo, morbido e facilmente spalmabile.

Originariamente la ‘nduja – il cui nome deriverebbe dal francese “andouille” (salsiccia) – era un alimento povero e veniva preparato usando le parti meno nobili del maiale come interiora, trippa e polmoni.

Oggi, invece, vengono utilizzate le parti migliori dell’animale, impastate con sale e peperoncino. Il tutto viene insaccato in un budello naturale e poi leggermente affumicato prima di essere stagionato.

https://youtu.be/N4358KjXIVk

Anche la Toscana è una regione fiera delle sue antiche tradizioni.

Nel settore dei salumi sono molto rinomati il Prosciutto toscano e il Salame toscano. Di quest’ultimo ogni zona ha una specialità diversa.

Nel Chianti si prepara la finocchiona, di origine tardo medievale o rinascimentale.

https://youtu.be/Hb12axLJ5-U

 

BOTTARGA

Oggi un po’ di gastronomia … anzi di antica gastronomia, quella delle uova di muggine, di tonno o di pesce spada, che vengono sottoposte a salatura, pressatura, e successivamente lasciate essiccare per un periodo.

Dobbiamo risalire agli arabi, ai greci, ai bizantini per trovare l’origine del termine bottarga.

Si dice che derivi dall’arabo butarikh (uova di pesce salate): anche se gli arabi, durante le loro scorribande nel Mediterraneo, trasmisero agli spagnoli  e ai siciliani diverse tecniche e nomi culinari, non devono essere necessariamente considerati gli inventori di questa preparazione.

Il nome deriva probabilmente dal greco tàrichos (salume), un prodotto conservato sotto sale.

In Sardegna, dove si produce bottarga di tonno e di muggine, viene chiamata butàriga, con una forte assonanza con il termine arabo.

Tradizionalmente la bottarga costituiva il pasto dei pescatori che trascorrevano la giornata in mare.

Come nasce la bottarga?

https://youtu.be/RJPOIenopJ4

Oltre alla Sardegna, viene prodotta anche in altre regioni italiane dove i cefali sono abbondantissimi, come ToscanaCalabria e Sicilia.

Le bottarghe hanno caratteristiche diverse: tutto dipende dalla modalità di preparazione e dalla natura delle uova.

Oltre a consumarla come antipasto su fettine di pane abbrustolito o fresco, si possono preparare degli ottimi spaghetti.

Ecco qui la ricetta per chi volesse cimentarsi ai fornelli:

https://youtu.be/auaJHwYh2l0

ELISIR DI LUNGA VITA O D’AMORE?

Nella mitologia greca elìsio era il luogo di beatitudine destinato al soggiorno delle anime degli eroi e dei saggi dopo la morte.

Gli alchimisti chiamavano elisir quella sostanza che doveva trasformare i metalli vili in oro,  essa poteva essere solida, in polvere o liquida.

La stessa sostanza, sotto forma di tintura, avrebbe dovuto prolungare indefinitamente la vita e, quindi, venne chiamata “elisir di lunga vita”.

Ciò diede origine  a tante leggende, miti e racconti fantastici come questo:

https://youtu.be/FI1J-AzwtG0

Si narra che l’alchermes, liquore tipico toscano, fosse considerato una specialità medicinale e prodotto come “elisir di lunga vita” dalle suore fiorentine dell’Ordine di Santa Maria dei Servi, fondato nel 1233.

A fine ‘400 lo preparavano i frati di Santa Maria Novella e i Certosini. Era una bevanda molto apprezzata dai Medici: la regina Caterina portò la ricetta in Francia dove divenne nota con il nome di “Liquore de’ Medici”.

La parola alchermes deriva dall’arabo al firmi (il verme): si riferisce alla cocciniglia, il cui corpo essiccato e ridotto in polvere fornisce una sostanza rossa colorante che viene impiegata nella preparazione del liquore.

Il metodo di preparazione segue ancora la ricetta della tradizione: occorre pestare in un mortaio cannella, coriandolo, cocciniglia essiccata, macis, chiodi di garofano, scorza d’arancio dolce, fiori di anice stellato, cardamomo e vaniglia a pezzetti.

Dopodiché bisogna mettere in un bottiglione dell’alcol con acqua pura nel rapporto di due a uno ed unirvi il composto.

Lasciare in infusione per due settimane, girandolo una volta al giorno. Quindi, unire dello zucchero sciolto in acqua fredda, agitare e far riposare per un altro giorno. Filtrare il liquore e aromatizzarlo con acqua di rose.

L’alchermes è molto utilizzato sia in gastronomia che in pasticceria, come colorante e aromatizzante.

Intorno all’elisir ruota anche la storia dell’opera di Gaetano Donizetti “L’elisir d’amore”, in cui si raccontano le vicende dell’umile contadino Nemorino, innamorato di Adina, ed incapace di dichiararsi.

Ma arriva  Dulcamara (il ciarlatano) che, fingendosi un dottore, vende a Nemorino un fantomatico elisir d’amore, che gli permetterà di conquistare Adina dopo un giorno.

L’opera andò in scena per la prima volta il 12 maggio 1832 al Teatro della Cannobiana di Milano e fu il risultato di un lavoro di soli quattordici giorni.

È uno dei più alti esempi dell’opera comica ottocentesca.

Nonostante si tratti di un melodramma giocoso, l’inventiva melodica di Donizetti vuole che la sua aria più celebre “Una furtiva lagrima” sia velata di malinconia.

https://youtu.be/Y0O4hbBQZxg

DOLCE PASQUA

Le celebrazioni hanno una loro consuetudine gastronomica che viene sempre coronata da un dolce particolare, le cui origini spesso si confondono con le leggende.

La colomba, che tradizionalmente chiude il pranzo pasquale, avrebbe le sue  radici nell’epoca medievale.

Una delle leggende che riguarda questo dolce narra che re Alboino, dopo aver conquistato Pavia alla vigilia di Pasqua, avrebbe salvato la città dal saccheggio perché tra i doni ricevuti vi erano dei pani dolci preparati a forma di colomba.

Un’altra è legata alla battaglia di Legnano (1176), vinta dalla Lega dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa.  Un condottiero, per celebrare la vittoria, fece confezionare dei pani speciali in omaggio alle tre colombe che durante la battaglia avevano “vigilato” sulle insegne lombarde.

La colomba – i cui primi ingredienti erano uova, farina, lievito e miele – è diventata l’emblema della Pasqua italiana a partire dagli anni ’30 quando l’azienda pasticciera Motta decise di realizzare una preparazione simile al panettone, modellata a forma di colomba e arricchita con pasta di mandorle e glassa di zucchero.

Ciononostante, le singole regioni hanno mantenuto le loro tradizioni e, attraversando lo stretto di Messina, troviamo la famosa cassata siciliana che avrebbe una radice millenaria ricollegata al culto religioso del sole, dove la forma rotonda del dolce simboleggiava fertilità, rinascita e resurrezione.

Per alcuni il nome cassata deriverebbe dal latino caseus (formaggio), per altri dall’arabo qas’at (scodella grande e profonda). Ad ogni modo, il dolce è nato dall’incontro di due culture: la ricotta che è un ingrediente del mondo pastorale romano, e la pasta di mandorle e i canditi elementi della società araba.

Durante il Medioevo le suore di Valverde preparavano le cassate per i nobili palermitani che desideravano consumarla nel giorno di Pasqua.

https://youtu.be/PXb58178Yx0

Ci spostiamo al nord, nel Friuli, dove si celebra la Pasqua con la gubana, dolce fatto a forma di chiocciola e preparato con pasta dolce lievitata ripiena di noci, uvetta, pinoli, zucchero, liquore e scorza di limone.

Le origini della gubana sono sopratutto legate alle celebrazioni religiose e alle grandi feste (Natale, Pasqua, matrimonio).

Nata nelle zone di confine del nordest, rappresenta un ponte tra le tradizioni gastronomiche italiane e slovene.

Il termine “guba”, che in sloveno significa “piega”, indicherebbe la forma a torciglione del dolce.

La sua storia è antichissima e parte dall’elenco delle vivande servite nel banchetto imbandito in onore di Papa Gregorio XII durante la sua visita a Cividale nel 1409.

Torniamo al sud per gustare la pastiera napoletana, rinomata in tutto il mondo.

I suoi ingredienti principali sono: il grano (simbolo di ricchezza), le uova (emblema di vita) e la ricotta ovina (immagine di abbondanza del gregge).

Anche in questo caso la nascita della pastiera è legata alla leggenda della sirena Partenope.

La ricetta è stata custodita all’interno degli ordini conventuali: nel ‘700 le suore di S. Gregorio Armeno avrebbero stabilito la versione attuale della ricetta.

https://youtu.be/WG-ya-JBEzE

ACQUAVITE O GRAPPA ?

Per trovare le origini della grappa bisogna risalire alla Mesopotamia del periodo tra l’VIII e il VI secolo a.C.

Infatti, il primo documento scritto del IV secolo a.C. sostiene che gli Egiziani usavano strumenti di distillazione già quaranta secoli prima di Cristo e fu da loro che gli Arabi appresero l’arte della preparazione dell’acqua della vita.

La diffusione dell’acquavite in Italia si deve agli studi della Scuola Salernitana – la prima e più importante istituzione medica d’Europa nel Medioevo e da molti considerata l’antesignana delle moderne università – che codificò le regole della distillazione e prescrisse l’impiego per uso esclusivamente medicamentoso.

De arte confectionis acquae vitae “, il primo vero e proprio trattato sulle tecniche di produzione dell’acquavite, fu stilato da Michele Savonarola, medico padovano e zio del noto frate. Descrive tre tipi di acquavite in uso nel XV secolo in Italia: l’acquavite semplice, l’acquavite comune  e la quintessenza.

Nel 1600 anche i Gesuiti studiarono la distillazione delle vinacce ed è di quel secolo l’istituzione a Venezia della “Corporazione degli Acquavitieri”.

Il termine “acquavite” deriva dal latino aqua vitae (acqua di vita), ma alcuni manoscritti medievali danno un’altra derivazione etimologica legata ad aqua vitis, per la caratteristica forma a spirale della serpentina di refrigerazione degli alambicchi.

Come si fa la grappa?

https://youtu.be/6y01iX07xpg

Il termine “grappa” entra nell’uso comune solo alla fine del XIX secolo e oggi è riservato soltanto ai distillati italiani.

Le grappe possono essere classificate come “grappa giovane”, la più semplice, viene imbottigliata dopo essere stata distillata; “grappa invecchiata”, è il distillato che viene fatto affinare in legno per 12 mesi; “grappa riserva o stravecchia”, distillato di vinacce che viene fatto affinare per lo meno 18 mesi in botti di legno. Ovviamente sia la speziatura che la struttura della grappa sono maggiori.

Abbiamo poi le “grappe aromatiche”, cioè quelle che provengono dalla distillazione di vinaccce di vitigni aromatici come Malvasia, Moscato e Gewurztraminer, solitamente non fanno invecchiamento; le “grappe monovitigno”, fatte con vinacce dello stesso vitigno, e le “grappe aromatizzate”, sono quei distillati fatti aromatizzare con spezie, radici, frutta o fiori.

Acquavite o grappa?

https://youtu.be/gkxPTrxuJHc

Molto importante per valutare la qualità della grappa è farne la corretta degustazione seguendo queste indicazioni:

https://youtu.be/lbiHTlB2SzU

Con la grappa si possono fare anche svariati cocktail come il cocktail Ciuco (aperitivo con grappa, ginger beer e melone), il cocktail Geppetto (aperitivo estivo e dissetante con pompelmo, grappa e rosmarino), il Genzianito (con grappa alla genziana, liquirizia e chinotto), il cocktail Booby (grappa, maracujá, arancia, albume e lavanda), il Grappalicious (grappa e prugne) e il Caffè della Peppina (caffè shakerato con grappa, liquore al caffè e menta).

E per chi volesse sbizzarrirsi in cucina, ecco la  ricetta dei tortellini alla grappa:

https://youtu.be/2242TBpWjMg

Non  mi resta che augurarvi … Buona Grappa!

PRIMITIVO DI MANDURIA

Grazie alla sua posizione geografica eccezionale, la Puglia ha un legame costante e antico con il vino.

La coltivazione della vite in questa regione era praticata ancora prima dell’insediamento dei Fenici (2000 a.C.), i quali introdussero nuovi vitigni  e nuove tecniche di coltivazione che si svilupparono con l’arrivo dei coloni greci.

I romani trovarono in Puglia vini eccellenti provenienti da Canosa e Brindisi.

Lo sviluppo della viticoltura non si arrestò dopo la caduta dell’Impero romano e nel XII secolo con Federico II si diffusero nuovi vitigni.

L’attività vitivinicola della Puglia conobbe un particolare impulso nella seconda metà dell’Ottocento: in pochi anni aumentarono le superfici delle terre destinate a vigneto per soddisfare la richiesta di grandi quantitativi da “taglio” da parte dei commercianti del nord.

Oggi questa regione è una delle più produttive in termini di quantità.

https://youtu.be/aTjSxLnyFJc

Le origini del Primitivo risalirebbero ai Balcani, ma si è meravigliosamente radicato in Puglia nella zona intorno a Manduria.

Nella seconda metà del 1700 don Francesco Filippo Indellicati, primicerio della chiesa di Gioia del Colle, si accorse che uno dei vitigni presenti nelle sue vigne maturava precocemente permettendone la vendemmia ad agosto. Quindi, decise di impiantare un vigneto con quel tipo di uva e, in poco tempo, la coltura si estese nella zona di Gioia del Colle, Altamura e Acquaviva delle Fonti.

Alla fine dell’800 la contessa Sabini di Altamura sposò Don Tommaso Schiavoni Tafuri, signorotto di Manduria, e portò in dote una barbatella di quella vite che si diffuse rapidamente nella zona dando vita al vino che oggi viene denominato Primitivo di Manduria:

https://youtu.be/vkMPW7I3xIM

Un vino rosso intenso dalle sfumature violacee in gioventù che, col tempo, volgono al granato, ampio di profumi con forti sentori di frutti rossi, potente ma morbido, caldo e asciutto.

Si abbina con secondi piatti a base di carne rossa come la grigliata mista, ma anche più elaborati come il cinghiale i salmì. Interessante anche l’accostamento con i formaggi a pasta dura molto stagionati.

OLIO D’OLIVA, UNA LUNGA STORIA

Secondo la mitologia il nome di Atene deriva da una disputa fra Zeus e Pallade Atena, vinta da quest’ultima dopo aver scagliato una lancia sull’Acropoli da cui sarebbe nato il primo ulivo.

Omero descrive la casa di Ulisse ricavata attorno ad un ulivo. La mitologia egizia attribuisce ad Iside l’invenzione dell’olio d’oliva, mentre per gli ebrei i semi di olivo, insieme a quelli di cipresso e di cedro, furono messi sulle labbra di Adamo dal figlio Set dopo la sua morte. 

Storicamente si ritiene che l’origine dell’ulivo, circa seimila anni fa, sia da ricercare nella regione dell’Asia Minore compresa tra il Caucaso, l’Altopiano iraniano, le coste siriane e in Palestina. Da qui si sarebbe propagato nelle coste del Mediterraneo.

La diffusione in Italia si deve agli Etruschi e successivamente ai Fenici ed ai Greci.

Il maggior impulso alla coltivazione ed allo smercio fu dato dai Romani che censirono dieci varietà di piante di ulivo e classificarono cinque diverse categorie di oli.

I negotiatores oleari, riuniti in collegi di importatori, erano gli unici abilitati a trattare l’”oro verde”. Le contrattazioni avvenivano nell’arca olearia, una vera e propria borsa specializzata.

Per spremere le olive erano utilizzati dei contenitori di pietra sui quali venivano deposti i frutti e pestati con mazze o bastoni.

L’olio di qualità era molto costoso e in epoca imperiale assunse un ruolo fondamentale: Giulio Cesare costrinse le province vicine dell’Impero a consegnare alla città molti litri di olio come tributo annuale.

La caduta dell’Impero romano e le invasioni barbariche interruppero i contatti commerciali, facendo decadere l’olio da pianta sacra a specie rustica poco significativa.

In questa visita al Museo Ipogeo dell’Olio di Guggianello si può apprezzare come veniva prodotto l’olio in epoca romana:

https://youtu.be/6ZLY1LbOsgA

A partire dal XII secolo, grazie agli ordini monastici, venne dato nuovo impulso all’estrazione dell’olio. La quantità di uliveti si incrementò in tutta la Penisola, soprattutto in Toscana, dove anche la borghesia commerciale scoprì nella produzione e nel commercio dell’olio un’ importante fonte di guadagno.

Nel ‘700, il secolo dei lumi a olio, aumenta smisuratamente la sua richiesta. La popolazione cresce e l’olio è presente sia sulla tavola che per vari usi quotidiani. Anche l’industria, soprattutto i settori del tessile, della lana e del sapone, ne fanno richiesta.

Inghilterra, Belgio, Francia, Russia e Germania, sprovviste di ulivi, devono cercarlo in Italia. Il mercato mondiale aumenta, il prezzo dell’olio sale e coltivare ulivi è un guadagno sicuro.

Nel XIX secolo l’olivo è parte fondamentale della piccola e media proprietà, diventa un solido investimento. L’Umbria si coprì di ulivi seguendo l’invito di Pio VIII, che nel 1830 promise il premio di un “Paolo”  a chi mettesse a dimora e allevasse fino a 18 mesi una pianta.

Nella seconda metà del secolo, a causa di avverse condizioni climatiche e di malattie che colpiscono le piante, in alcune zone del meridione si abbatterono gli ulivi per avere legna.

Negli anni Trenta del ‘900 vi è una ripresa dovuta alla  promulgazione in Italia di alcune leggi  che promuovono la olivicoltura.

Dopo la guerra mondiale, la cucina tradizionale italiana viene considerata rozza, popolare e povera. Le abitudini nordiche sembrano più civili e, quindi, si predilige il burro all’olio.

Con la riscoperta dei sapori più naturali e genuini degli anni ‘80, l’olio d’oliva torna ad essere una delle eccellenze italiane.

La tecnologia di oggi consente di produrre un olio d’oliva di migliore qualità,  in condizioni igieniche ottime ed in modo meno faticoso:

https://youtu.be/dnqkb1mOiLk

Per apprezzare di più l’olio d’oliva è importante imparare a farne la degustazione: https://youtu.be/pW4vkwfHoVQ

ACCIUGHE, DA NORD A SUD

 

Argentate e leggere, le acciughe appartengono alla famiglia degli Engraulidae e sono comuni nei mari che circondano l’Italia: ecco perché si trovano a tavola da nord a sud.

Oltre alla disponibilità e al gusto, ci sono anche ragioni storiche e pragmatiche alla base di tale popolarità.

Nell’antica Grecia la gente amava le acciughe tanto quanto i romani le avrebbero amate qualche decennio dopo.

Il legame proviene da una tradizione, quella delle acciughe di Menaica, nel salernitano.

La menaica è una rete per catturare le acciughe. Una volta a bordo, i pescatori utilizzano tecniche tradizionali per pulire e conservare le acciughe, e per ottenere un tipo di colatura (salsa di pesce) secondo un metodo greco.

Invece, la “colatura di Cetara” si fa seguendo un metodo romano.

A questo punto è d’obbligo citare il garum, una salsa di acciughe fermentate che era l’equivalente del “ketchup” dell’antica Roma.

Una linea retta collega l’antico garum all’odierna “colatura di alici di Cetara”.

https://youtu.be/n0VafAk6AW8

A nord, le tecniche di conservazione consentivano di trasportare le acciughe nell’entroterra seguendo le antiche “Vie del Sale”, rotte commerciali che collegavano la Liguria e la Francia alla Pianura Padana e alla Toscana.

Nell’antichità, quando non esisteva la refrigerazione, il sale era l’unico metodo per conservare gli alimenti ed era una sostanza talmente preziosa che poteva essere scambiata con cereali, vino e altri prodotti tipici delle regioni settentrionali italiane.

Le acciughe sotto sale sono diventate un punto fermo della tradizione culinaria di regioni come Piemonte e Lombardia.

Ma le acciughe fresche sono anche molto apprezzate al Sud: in Sicilia vengono utilizzate in molti primi piatti e anche marinate nel limone e nell’olio d’oliva.

Un tempo erano conosciute come il “pane dei poveri” e sono considerate un ingrediente centrale nella tradizione culturale siciliana: a Bagheria si trova addirittura il “Museo dell’acciuga”:

https://youtu.be/OL50RVUGEkw

In Calabria le alici vengono arrostite con i peperoni, mentre in Campania diventano protagoniste della tavola della vigilia di Natale sia  fritte che usate come ingrediente importante della famosa “insalata di rinforzo”.

Torniamo al nord, in Liguria, dove vengono trasformate in una zuppa chiamata “bagnum”, servita con la tipica “galletta del marinaio”.

Non bisogna dimenticare la pizza con le acciughe, il vitello tonnato e un classico della cucina piemontese, la bagna cauda (salsa calda a base di olio d’oliva, acciughe e aglio, servita come intingolo con pane e verdure crude).

https://youtu.be/5JRz1NDZ_N8

FRUTTA E CANDITI 

Con l’evoluzione della civiltà l’uomo imparò a coltivare la frutta. Molte specie giunsero in Occidente dall’Oriente e dall’Africa.

Nell’antichità la frutta, fresca o secca, veniva consumata dai greci e dai romani a colazione e per concludere la cena.

In epoca cristiana la frutta era alimento comune sia cotto che crudo, e nel Medioevo i banchetti finivano con questi prodotti del bosco.

Nel Rinascimento, periodo in cui l’apparecchiatura della tavola subì un’evoluzione, la frutta divenne protagonista di raffinate composizioni: i trionfi.

I medici, sia nel Medioevo che nel Rinascimento, consideravano la frutta un cibo freddo e pericoloso, ma al contempo la ritenevano un utile stimolo all’appetito che, interrompendo la sequenza delle portate elaborate, aveva la funzione di rinnovare la freschezza del palato.

Nel Seicento la frutta divenne oggetto d’interesse da parte dei naturalisti e, quindi, molti giardini e orti botanici ospitarono gli alberi che la producevano.

Durante il Settecento, grazie allo sviluppo delle tecniche agricole, se ne incentivò la coltivazione, conservazione e consumo.

La frutta fu protagonista anche nell’arte e oggetto di diverse interpretazioni.

Ecco il “Canestro di frutta” del Caravaggio:

https://youtu.be/M0ZXJKq7W6Y

Giuseppe Arcimboldo offre nelle sue “Quattro Stagioni” una visione diversa ed attribuisce un altro significato alla frutta:

https://youtu.be/wGKABRG77D8

Il termine “candito” della lingua italiana sembra derivi da qandi, parola araba che indica il succo di canna da zucchero concentrato.

Grazie ai mercanti veneziani prima e genovesi poi, la canditura si fece strada in Occidente, anche se gli Arabi  l’avevano già introdotta in Sicilia tra il IX e il XII secolo con la diffusione dello zucchero.

Le prime testimonianze dell’uso di frutta candita risalgono al ‘500. All’epoca i canditi venivano assimilati alle spezie.

In passato si candivano vari fiori e frutti, ma soprattutto gli agrumi.

La tecnica della canditura conferisce al prodotto un alto grado di conservabilità.

In Italia sono diventati un ingrediente importante in alcuni dei dolci più famosi della tradizione culinaria, come il panettone milanese e la cassata siciliana.

I canditi sono il risultato di un’operazione consistente nella prolungata e ripetuta immersione della frutta in una soluzione di zucchero resa via via sempre più satura con il riscaldamento.

https://youtu.be/ziw6EHBGOQg

 

CAPPERI

Capperi! Oltre ad essere un’esclamazione che esprime stupore, meraviglia, è una pianta diffusa nell’area mediterranea fin dall’antichità.

Nonostante i capperi si trovino anche in Liguria, quelli di Pantelleria hanno ottenuto l’IGP (Indicazione Geografica Protetta, marchio che identifica e tutela i prodotti originari di una determinata area geografica che nel tempo si è distinta per qualità e reputazione).

Il cappero presenta bottoni di forma globosa di colore verde tendente al senape e grazie al connubio del suolo di origine vulcanica e al clima caldo e ventoso di Pantelleria, le piante di cappero si sono diffuse ovunque.

Nel suo ambiente naturale è una pianta che cresce sulle rupi calcaree, su vecchie mura, formando spesso cespi con rami ricadenti lunghi anche diversi metri.

A Pantelleria, per incentivarne la coltivazione, “sparano” i semi di cappero con una cerbottana tra le fessure di un muro o tra le tegole di un tetto.

https://youtu.be/YZUAnPFgD_U

Il frutto della pianta del cappero è il cucuncio. Contrariamente a quanto si pensa, il cappero non è un frutto, bensì il bocciolo del fiore di capperi non ancora sbocciati.

Dopo l’apertura del fiore dei capperi, inizia la fruttificazione che porta poi al cucuncio.

Il cappero ha  forma tondeggiante, è grosso al massimo come un chicco d’uva sultanina. Invece, il cucuncio – chiamato anche cappero gigante o cappero grande – si presenta con una forma più affusolata e un lungo picciolo. Al suo interno si trovano i semi.

https://youtu.be/-7kzdHJLyKI

Ecco 5 buoni motivi per consumare capperi:

  1. Grazie alla grande quantità di quercetina, un antiossidante naturale, svolgono una funziona anti infiammatoria degli organi.

  2. Sono stimolanti nel processo digestivo.

  3. I suoi flavonoidi proteggono le pareti dei piccoli vasi sanguigni, contribuendo a ridurre il tasso di colesterolo cattivo nel sangue.

  4. Sviluppano i meccanismi di protezione contro artriti e artrosi.

  5. Sia le radici che i boccioli sono ottimi diuretici.

VINO NOVELLO E NON SOLO …

Durante i primi giorni di novembre – quando nell’emisfero nord arrivano delle splendide giornate di sole, mentre ci si aspetterebbe un brusco abbassamento delle temperature in vista dell’inverno che si avvicina – si parla di “estate di San Martino”.

Di solito ciò avviene intorno all’11 novembre. Nei Paesi anglosassoni questo periodo viene chiamato “Indian Summer”.

La figura di San Martino è legata a Martino di Tours, soldato umile e caritatevole, vissuto in Francia tra il 316 e il 397 d.C., poi diventato vescovo.

Secondo la tradizione esistono diverse leggende.

Eccone una: https://youtu.be/Cqk50m0YqAs

In passato questo periodo dell’anno era importante per gli agricoltori dato che, durante l’estate di San Martino, venivano rinnovati i contratti agricoli annuali. Secondo la tradizione in questi giorni si aprono le prime botti del “vino nuovo” da assaggiare con le castagne.

Questa abitudine è celebrata in una famosa  poesia di Giosuè Carducci, intitolata appunto San Martino. Altre due poesie dedicate a questo periodo sono Novembre di Giovanni Pascoli ed Estate di San Martino di Cesare Pavese.

Ma, per parlare di vino, è bene conoscere la sua storia sin dalle origini:

https://youtu.be/krFz1T7_KOs

Adesso parliamo di un vino nato nella seconda metà del secolo scorso: il “vino novello”. 

In realtà è una copia del “Beaujolais nouveau” francese. La caratteristica che contraddistingue questo vino è la tecnica di vinificazione utilizzata, ovvero la macerazione carbonica: l’uva non viene pigiata, ma lasciata a macerare per qualche giorno ad una temperatura intorno ai 30º.

Il risultato è un vino facile, poco tannico, dal colore vivo e acceso, dal gusto fresco, giovane e fragrante. Va bevuto entro pochi mesi dalla messa in commercio: in Italia è prevista dal 30 ottobre al 31 dicembre dell’annata di produzione delle uve utilizzate.

Mentre il vino francese prevede l’uso di uve 100% Gamay, in Italia invece è consentito l’uso di ben 60 vitigni diversi, le uve vinificate con il metodo della macerazione devono essere solo il 40% e la parte restante può essere vinificata con tecniche tradizionali.

Ecco come si ottiene il vino novello: https://youtu.be/FeFksTdrpPI

L’abbinamento classico di ogni buon vino novello è quello con le castagne, seguite dai formaggi. Va servito a 14-16º e si sposa bene sia con i funghi che con i carciofi, ma anche con i salumi, il pesce e le carni bianche.

LA CUCINA EBRAICA A ROMA

Parlare di “cucina ebraica” è piuttosto complicato: si può dire, infatti, che non esiste un’unica tradizione culinaria comune a tutti gli Ebrei. Al contrario, ogni comunità possiede una cultura alimentare che è il risultato dell’apertura verso la realtà circostante e la tradizione locale e dell’adattamento al proprio territorio.

E’ facilmente immaginabile, ad esempio, l’enorme differenza che esiste tra la cucina ashkenazita del Nord Europa e quella sefardita, ricca e mediterranea, pur nel comune rispetto della kasherùth.

Anche in Italia la tradizione gastronomica ebraica è ricchissima e muta di regione in regione riflettendo il particolarismo locale tipico di questo Paese.

Se da secoli le comunità ebraiche prosperano da nord a sud, quella di Roma è una delle più antiche: la sua storia è, come spesso e dolorosamente accaduto per il popolo ebraico, caratterizzata da tempi di segregazione e persecuzione.

La svolta per la comunità ebraica di Roma avvenne nel 1492, quando gli ebrei di Spagna trovarono rifugio nella capitale  dopo essere stati espulsi dal Paese. Roma accolse con gioia e tolleranza i suoi nuovi residenti, fino al 1555 quando papa Paolo IV creò il ghetto, il secondo più antico al mondo dopo quello di Venezia, dove furono costretti a trasferirsi tutti gli ebrei della capitale e dei territori circostanti.

Facciamo un viaggio virtuale nell’antico Ghetto di Roma prima della demolizione di fine Ottocento: https://youtu.be/LI2h2Zaw0_w

Il cibo giudeo-romano è un perfetto esempio di “cucina fusion” – concetto tutt’altro che moderno – che riunisce influenze culinarie radicate nella religione, nella spiritualità, nella storia e nella geografia.

La comunità ebraica a Roma è millenaria e il suo cibo è probabilmente il posto migliore per scoprire il modo in cui mangiavano i romani del passato: ma la tavola giudeo-romana è anche influenza dai precetti religiosi.

Alcuni ritengono che l’uso popolare delle frattaglie, il cosiddetto quinto quarto, nella cucina romana sia anche frutto delle abitudini culinarie ebraiche.

Quando nel 1661 le leggi suntuarie imposero alla comunità ebraica di Roma di non consumare cibi costosi, la maggior parte del pesce venne proibita. Ad eccezione del pesce azzurro, come le acciughe e le sardine.

In questo momento, secondo gli storici, nacque un altro piatto della cucina ebraico-romana: gli “aliciotti con l’indivia” (acciughe con indivia): si sovrappongono strati di pesce e indivia stagionata e poi si cuociono al forno.

Ultimo ma non meno importante, il dolce, ovviamente. Ci sono alcuni famosi dolci romani che ricordano così tanto il Medio Oriente che quando li assaggi sembra quasi di essere a Gerusalemme: abbiamo la pizza dolce ebraica o, più correttamente, la pizza dolce di Beridde,  una sorta di grosso biscotto con canditi, pinoli e mandorle; la nocchiata , palline dolci fatte con uova e noci — di solito mandorle, nocciole o noci — poi fritte con il miele; e il tortolicchio , un dolce fatto per Purim con miele, semi di anice confetto e mandorle.

Il Portico d’Ottavia, fu voluto dall’Imperatore Cesare Ottaviano Augusto ed edificato tra il 27 e il 23 a. C., in sostituzione del preesistente Portico di Metello, nella zona del Circo Flaminio, in omaggio a sua sorella Ottavia.

A partire dal 1555 il Portico d’Ottavia venne inglobato all’interno di quello che era definito il Ghetto degli ebrei e finì col diventarne uno dei simboli.

https://youtu.be/Kzl2p56RSxI

I piatti del ghetto di Roma sono quelli più riconosciuti come ebraici da tutti gli italiani, come i famosissimi carciofi alla giudia. Ma molti vengono anche da altre regioni, come le venete sarde in saor o la siciliana caponata di melanzane o la zuppa di pesce che, originariamente, era preparata dagli ebrei solo con merluzzo; poi, con l’aggiunta di pesci non kasher e frutti di mare, è diventata il caciucco alla livornese.

Una caratteristica ricorrente è l’agrodolce: l’aceto e il miele, la frutta secca nei piatti di carne o comunque salati come, per esempio, il frisinsal o Ruota del faraone: un pasticcio di tagliolini, polpettine di carne e uvette e pinoli.

Prima di salutarci, vi lascio la ricetta dei carciofi alla giudia: provate a farli … sono buonissimi! https://youtu.be/K0SUQkQqMSw

L ‘APERITIVO

Da sempre e sotto ogni clima, l’uomo ha trovato nelle bevande alcoliche “il dio buono che addolcisce le passioni dell’animo come il ferro è ammorbidito dal fuoco” (così scrisse Montaigne).

Tra queste bevande c’è una categoria che è sempre consumata prima dei pasti: l’aperitivo.

Dal latino aperitivus diventato apéritif in Francia, indica la sua funzione di aprire lo stomaco e di prepararlo ad una buona digestione grazie a sostanze di sapore amaro.

Meno scientificamente possiamo dire che l’aperitivo è il preludio ad un incontro piacevole.

Gli Assiri prendevano l’aperitivo con vino di palma, i Pellerossa consumavano succo d’acero fermentato e i Tartari bevevano latte inacidito di cavalla. I Greci e i Romani inauguravano i pasti con vini aromatizzati con carciofo e genziana.

In Italia, l’aperitivo come lo intendiamo oggi, si impose a fine ‘700 con la diffusione del vermouth.

Invece in Francia, durante la Rivoluzione, nacque il bitter, ottenuto da una soluzione d’acqua e alcol diluita nella soda e aromatizzata con estratti di erbe e piante.

Luigi XIV aveva l’abitudine di sorseggiare un rosolio (Ros-Solis) preparato appositamente da un confettiere piemontese.

https://youtu.be/udm7N9GRr_c

Il vino è sempre stato utilizzato come veicolo dei principi attivi medicinali ed i vini medicamentosi erano una delle forme galeniche più prescritte.

Molti attribuiscono l’invenzione del vermouth al medico greco Ippocrate (460 a.C.) che lasciò macerare nel vino i fiori del dittamo e dell’artemisia, ottenendo una bevanda digestiva e stimolante che fino al Medioevo venne  chiamata vino ippocratico.

È probabile che questa bevanda sia stata copiata dai Romani che la arricchirono con foglie aromatiche di timo, rosmarino e mirto.

Durante il Medioevo al vino ippocratico vennero aggiunte le nuove spezie portate dai Veneziani. Quindi, all’assenzio si mescolarono il cardamomo, la cannella, i chiodi di garofano, mirra o rabarbaro. A quell’epoca Torino, Firenze e Venezia erano i centri più importanti per la preparazione dei liquori e dei vini ippocratici.

Perché, essendo un prodotto tipicamente italiano, il vermouth ha un nome straniero?

Alcuni sostengono che il termine derivi dall’erba aromatica più importante nella sua preparazione: l’artemisia, chiamata in tedesco “wermut”.

Oggi si possono distinguere vari gruppi di aperitivi: alcolici, analcolici, amari (diluiti con ghiaccio, acqua e selz), liquorosi (rosoli), quelli a base di vino (vermouth) e quelli costituiti da vini veri e propri (bianchi secchi o rosati).

Lo Spritz, il cui nome deriva dal verbo tedesco spritzen (spruzzare), risale all’usanza delle truppe dell’Impero austriaco di stanza nel Regno Lombardo-Veneto di allungare i vini locali con seltz o acqua frizzante.

È un aperitivo alcolico veneto a base di prosecco, un bitter e seltz, che tra gli anni  venti e trenta del ‘900 diventa cocktail.

https://youtu.be/v7Mxhddnbfs

Il Negroni – aperitivo alcolico a base di vermouth rosso, bitter Campari e gin –  fu ideato a Firenze nel 1920 dal Conte Camillo Negroni che, per variare dal suo abituale aperitivo Americano, chiese al barman di aggiungere un po’ di gin per sostituire il seltz.

Il nuovo cocktail divenne subito  noto come l’”Americano alla moda del Conte Negroni” ed in seguito prese il nome del Conte.

https://youtu.be/2KaO_yvWWNs

È risaputo che la fantasia dei barman non ha limiti: vi propongo questo simpatico video con la ricetta del Blueberries Boulevardier realizzata da uno dei barman più conosciuti in Italia:

https://www.brunovanzan.com/cocktail/tutorial/blueberries-boulevardier/

IL GELATO

La felicità sta nelle piccole cose e dunque la si può trovare anche in un gelato.

Alcuni fanno risalire le origini del gelato addirittura alla Bibbia: Isacco, offrendo ad Abramo latte di capra misto a neve, avrebbe inventato il primo gelato della storia.

Altri, invece, agli antichi Romani che si distinsero grazie alle loro nivatae potiones, cioè veri e propri dessert freddi.

Alcune fonti attribuiscono l’invenzione del gelato nel 1565 a Bernardo Buontalenti, architetto e scenografo alla corte di Caterina de’ Medici.

Un secolo più tardi, nel 1651 nacque a Palermo Francesco Procopio Cutò, che da giovane si dedicò alla pesca come il padre ed il nonno.

Il nonno Francesco, quando non era in mare a pescare, si dilettava nella costruzione di una macchina per fare i gelati che migliorasse la qualità di quello che si produceva allora. Procopio studiò a lungo l’invenzione che gli lasciò il nonno in eredità, finché dopo innumerevoli prove si sentì pronto per tentare la fortuna.

Divenne cuoco, si recò a Parigi e nel 1686 aprì un Caffè che portava il suo nome francesizzato “Le Procope”, che nel XIX secolo sarà molto in voga e frequentato da personalità della  politica e della cultura.  Attualmente è stato trasformato in un ristorante: https://youtu.be/Mr-HCtCvPx8

Un altro italiano, Filippo Lenzi, alla fine del XVIII secolo aprì la prima gelateria negli  Stati Uniti. La diffusione del gelato portò ad un’altra invenzione: la sorbettiera a manovella, brevettata nel XIX secolo da William Le Young.

Il primo gelato su stecco nasce in Italia nel 1948 ed è dei primi anni ’50 il cono con cialda industriale: il cornetto.

Il secchiello formato famiglia arriverà negli anni ’70.

La leggerezza del gelato ci porta ad un’altra leggerezza, cioè, “dimmi che gelato mangi e ti dirò chi sei”.

Ecco la classifica stilata da una psicologa:

IL CONO CON CIALDA: scelto da chi predilige un’esperienza sensoriale completa non negandosi nulla e contando sulla sicurezza di poter ricevere un appagamento finale.

LO STECCO: a prima vista chi mangia questo tipo di gelato si presenta come una persona intraprendente. In realtà è insicuro, ha bisogno che alla fine gli rimanga qualcosa, lo stecco appunto, con cui giocare o anche solo da tenere in bocca.

IL GHIACCIOLO: si addice ad una personalità effimera e indipendente, preferisce un piacere da gustare immediatamente. Questo tipo di persona tollera poco, quasi affatto, l’attesa della preparazione di un gelato.

IL BISCOTTO: per chi ha bisogno di grande rassicurazione. Sembra quasi la merenda preparata dalla mamma: il biscotto rimanda al bisogno di ricercare una sorta di nutrimento affettivo.

LA COPPETTA: scelta di solito dai tipi più controllati e misurati. È il formato preferito da chi non riesce a lasciarsi andare fino in fondo e concedersi un piacere: è come se si sentisse in colpa per un “peccato” di gola commesso; ma anche da chi vuole mantenere le buone maniere, anche con se stesso.

LE PRALINE: sinonimo di personalità moderna. Si tratta infatti di una scelta “mordi e fuggi”, caratteristica dei nostri tempi. È il gelato di chi ama portarsi una sorta di benessere, un piacere più piccolo, che non duri troppo, ma ripetuto nel tempo.

Adesso torniamo al nostro gelato che si trova in buona compagnia anche con il vino: in questi casi il gelato migliore è quello da gustare a temperature tra i 12 e i 15 gradi ed il vino deve essere servito ad una temperatura leggermente più alta (un paio di gradi in più) di quella che gli sarebbe ottimale.

Un dettaglio fondamentale è che il vino deve essere sorseggiato prima di gustare il gelato, mai viceversa!

Ecco alcuni abbinamenti:

  • con le creme tipo cioccolato, pistacchio o nocciola andrebbe bene un Vin Santo Occhio di Pernice;

  • con i gelati di frutta va benissimo un Moscato d’Asti;

  • i distillati invecchiati e liquori si accompagnano al cioccolato fondente;

  • Tokaji con zabaione e mandorle;

  • il Marsala con Sacher;

  • Chianti Classico Riserva con gelato al cioccolato.

Quando si parla di gelato al cioccolato, ci viene subito in mente la canzone di Pupo del 1979 che ci consente di salutarci in allegria:

https://youtu.be/SqVcLyLKywM

VIN SANTO

Siamo arrivati a fine pasto ed ecco che ci viene servito un bicchierino di vin santo.

Infatti, il vin santo (o vinsanto) è un tipo di vino da dessert, tradizionale toscano ed umbro, fatto con uva di tipo Trebbiano e Malvasia. Può essere anche prodotto con uve Sangiovese e in questo caso di parla di “vinsanto occhio di pernice”.

I primi riferimenti al vin santo risalgono ai primi anni del cristianesimo, quando è probabile che l’espressione vin santo fosse usata per indicare il vino che veniva bevuto durante la Messa.

Nel 1348, mentre Siena soccombeva sotto la peste, dicono che quando i frati visitavano i malati, davano loro un sorso di vino da Messa per ristabilire le loro forze e che gli stessi malati lo chiamassero vin santo perché si sentivano alleviati dai dolori.

Un’altra storia lo colloca nel 1439 quando Papa Eugenio IV convocò il concilio di Ferrara a Firenze per discutere sui rapporti tra la Chiesa cristiana occidentale e quella orientale. Si dice che il Cardinale Bessarione, vescovo di Nicea, dopo aver assaggiato  un bicchiere di questo vino abbia esclamato “ma questo vino è Xantos”. Molto probabilmente perché xantos in greco significa giallo, come il colore del vino.

Altri ritengono che il nome vin santo derivi dal fatto che viene prodotto intorno a importanti festività religiose. La pigiatura dell’uva avviene intorno al giorno di Ognissanti in alcune parti d’Italia, mentre in altre avviene intorno a Natale o a Pasqua.

Tradizionalmente il vin santo veniva prodotto con i migliori grappoli, messi ad appassire su stuoie o appendendoli a ganci. Dopo le uve venivano pigiate ed il mosto era trasferito in caratelli di legni vari da cui era stato tolto il vin santo della produzione precedente, tenendo cura che la feccia della passata produzione non uscisse dal caratello perché era ritenuta la “madre del vin santo”: https://youtu.be/Yyhf4hS5w1M

I caratelli venivano sigillati e dislocati nella soffitta o in un sottotetto affinchè le escursioni termiche estate-inverno giovassero alla fermentazione del vino.

Si riteneva che tre anni di invecchiamento fossero sufficienti anche se alcuni produttori lo invecchiavano per più di dieci anni (e lo fanno tuttora).

https://youtu.be/l-ejD0Pa_14

Il vin santo può essere del tipo amabile o secco e si può abbinare alla pasticceria secca, con la pasta frolla e con i biscotti cantucci toscani.

Può essere consumato anche come vino da pasto: il tipo abboccato si accompagna al formaggio marzolino fresco e il tipo secco al raviggiolo (entrambi toscani).

I CONFETTI DI SULMONA 

Con dolcezza scopriamo la lunga strada del confetto che risale agli ultimi secoli del Medioevo e al Rinascimento quando era d’uso servire confetti speziati alla fine del pasto,  in quanto sia lo zucchero che le spezie erano allora un segno distintivo della tavola signorile.

Si potrebbe dire che i confetti sono un’invenzione medievale, elaborata in ambito farmaceutico, che più tardi approdò nella gastronomia.

Il termine confetto (dal latino conficere, cioè “fabbricare”) significava che era una cosa artificiale, non esistente in natura. L’idea era quella di addolcire alcune sostanze medicamentose (erbe, spezie, semi) per renderle più gravoli da ingerire.

La tecnica di lavorazione dei confetti venne perfezionata nel XV secolo dagli spagnoli e consisteva nello scaldare lo sciroppo di canna fino ad ottenere una patina bianca e cristallina che poteva avvolgere mandorle, nocciole e bucce d’agrumi. Da allora questi dolcetti si diffusero come simbolo di successo da lanciare al popolo nelle sfilate di Carnevale o nelle parate di trionfo militare.

In Italia la produzione dei confetti si concentra a Sulmona e nel napoletano.

https://youtu.be/UP2t8Jdyn5s

E’ una tradizione molto antica: le monache del monastero di Santa Chiara di Sulmona crearono attorno al 1500 fiori, grappoli, spighe, rosari e cestini di confetti legati con fili di seta.

https://youtu.be/MXAgl96HrbE

La creatività e i confetti vanno di pari passo come vediamo in questo video: https://youtu.be/XiUMqD28VPs

Dal XIX secolo questi dolcetti si colorarono, identificando simbolicamente l’evento del dono. Il bianco purezza per il matrimonio o la prima comunione, il rosa o azzurro per il battesimo, il verde speranza per il fidanzamento, il rosso per l’esame della tesi di laurea, l’argento per il venticinquesimo e l’oro per il cinquantesimo anniversario di matrimonio.

Prima di salutarci facciamo una brevissima visita al Museo Civico Diocesano di Santa Chiara a Sulmona, guidati dal critico d’arte Philippe Daverio:

https://youtu.be/vW5LLGw8k9c

BABÀ NAPOLETANO 

Tu si ‘nu babbà”, che in napoletano significa “Tu sei un tesoro”: partiamo da questa bellissima frase per iniziare il nostro viaggio alla scoperta di uno dei dolci più tipici della pasticceria partenopea.

Vi presento Nicolas Stohrer, pasticcere francese che fece l’apprendistato nelle cucine del re Stanislao I della Polonia e più tardi divenne pasticcere per  sua figlia Marie Leszczynska, che lo portò a Versailles nel 1725 dopo il suo matrimonio con il re Luigi XV di Francia.

Secondo la leggenda, un giorno il re polacco ebbe l’idea di inzuppare  un “kugelopf” (dolce  tradizionale mitteleuropeo) nel vino liquoroso Madeira: gli piacque e decise di battezzare il nuovo dessert con il nome di Alì Babà, il suo personaggio preferito delle fiabe delle Mille e una notte.

Invece, secondo la versione riportata dagli eredi di Stohrer, sarebbe stato il loro antenato ad immergere nel Madeira della pasta di brioche per poi farcirla con della crema pasticcera aromatizzata allo zafferano, dell’uva passa e dei chicchi d’uva fresca fatti macerare nello stesso vino.

Comunque, sarebbe sempre stato il re a battezzarlo Alì Babà.

Nel 1725, come abbiamo detto prima, il babà e Stohrer approdarono alla reggia di Versailles. A Stohrer gli venne concessa la licenza di aprire una pasticceria al centro di Parigi al numero 51 di rue Montorgueil (https://www.stohrer.fr/en).

Mi raccomando, segnatevi questo indirizzo perché la pasticceria esiste ancora e potrebbe esservi utile  durante il  vostro prossimo viaggio a Parigi se vorrete assaggiare la versione originale del babà e le variazioni come il babà chantilly farcito di crema chantilly, il babà “aux fruits” guarnito con ciliegie e albicocche secche ammorbidite nel rhum e il babà “au rhum” dal quale discende il babà napoletano.

Si può dire che a Napoli il babà si alleggerisce rispetto all’originale grazie alla triplice lievitazione della pasta, che viene imbevuta di rhum diluito con uno sciroppo di acqua e zucchero ed alla laccatura esterna ottenuta con della marmellata un po’ liquida di albicocca.

https://www.youtube.com/watch?v=cpc9jlwe15M

Nell’Ottocento Anthelme Brillat-Savarin eliminò l’uvetta dall’impasto, aggiunse il burro e gli diede forma di ciambella per poterlo farcire al centro con crema e frutta sciroppata. Nelle pasticcerie campane questa versione è molto frequente e si chiama “babà savarin”.

Il babà  è il risultato di un’alleanza gastronomica tra Polonia, Francia e Napoli, che gli ha dato il suo tocco mediterraneo.

IL CAFFE’ 

La parola caffè trova le sue origini nel vocabolo  arabo“qahwah” (= bevanda stimolante)  che divenne “kahve” in lingua turca ottomana e “koffie in olandese, per approdare nel 1582 nell’inglese come “coffee”.

E’ una bevanda ottenuta dalla macinazione dei semi di alcune specie di piccoli alberi tropicali appartenenti al genere Coffea.

L’origine del suo consumo è assai controversa.

Certi botanici affermano che i primi a riconoscere gli effetti stimolanti di queste drupe furono gli abitanti dell’Etiopia che le masticavano crude.

Altre fonti indicano che abbia origine in una mistura calda preparata dai popoli nomadi con gallette ricavate dai semi di coffea essicati al sole, macinati grossolanamente e mescolati al grasso.

Agli inizi il caffè era consumato prevalentemente durante le cerimonie religiose o per finalità terapeutiche. Solo nel secolo XVI divenne simbolo di convivialità e nella seconda metà del secolo aprirono i primi locali pubblici per la sua preparazione e consumo.

Nel 1615 arrivò a Venezia e successivamente si diffuse in Europa.

Ecco a voi il percorso dalla raccolta dei semi al prodotto finito:

https://www.youtube.com/watch?v=255gIAqzwWc

Siete in un bar in Italia e volete un caffè. Chiedete il solito cappuccino o un espresso? Ecco alcune delle varietà che potreste degustare al bar:

Caffè macchiato, un caffè con un goccio di latte schiumoso caldo sulla parte superiore.

Caffè con panna, simile al macchiato, ma con un po’ di panna montata dolce sulla parte superiore.

Caffè corretto, un caffè servito con una goccia di liquore, di solito cognac, grappa o sambuca, a scelta.

Caffè freddo, un caffè zuccherato caldo e poi raffreddato in frigorifero e servito freddo.

Caffè shakerato, delizioso nei mesi estivi. Si tratta di un espresso fresco mescolato con un po’ di zucchero e ghiaccio, scosso vigorosamente come un cocktail fino ad ottenere una schiuma quando viene versato.

Caffè latte, è semplicemente un caffè espresso con latte caldo, quello che gli americani chiamano “latte”.

Latte macchiato, si tratta di un bicchiere di latte al vapore con appena un po’ di caffè. E’ diversa dal Caffè Latte, perché il caffè viene aggiunto al latte e non il contrario.

Le proprietà stimolanti del caffè hanno trovato anche la loro musica, come in questo brano dal titolo “Ma cos’hai messo nel caffè?”

https://www.youtube.com/watch?v=PXCI66rdBPE

Alcune città, come Torino o Napoli, hanno personalizzato il caffè.

Il bicerin è la bevanda che da più di 250 anni unisce i torinesi davanti a un bicchierino. Infatti, “bicerin” in dialetto piemontese vuol dire bicchierino.

La storia narra che nel 1763 Giuseppe Dentis apre la sua bottega davanti all’ingresso del Santuario della Consolata. La nuova bevanda diventò presto il sostegno ideale per i fedeli che, usciti dalla Messa dopo il digiuno per la comunione, trovavano nel bicerin un dolce ed energetico conforto.

Il bicerin sarebbe il risultato dell’evoluzione di una bevanda settecentesca bavarese in cui il caffè veniva servito con cioccolato, latte e sciroppo, separatamente, e poi spettava al cliente unire gli ingredienti.

Attualmente il caffè viene mescolato agli altri ingredienti e servito in un  bicchierino appoggiato su un piattino.

 

A Napoli il caffè è addirittura un rito e nel linguaggio corrente la parola caffè assume diversi significati, come per esempio: “Prendiamoci un caffè” è un modo di dire “vediamoci, stiamo un po’ di tempo (non troppo) insieme”. Invece, “dobbiamo prenderci un caffè” significa che c’è qualcosa da discutere, da chiarire. E ancora, “ci vorrebbe un bel caffè” indica la necessità di staccare da qualcosa di impegnativo, prendersi una pausa dal lavoro.

L’indimenticabile Domenico Modugno lo esaltava così:

https://www.youtube.com/watch?v=TGD4FV6-Nv8

Infine, una tradizione napoletana è il caffè sospeso (in napoletano ‘O cafè suspiso) è un’abitudine filantropica e solidale che iniziò durante la guerra quando, in tempi molto difficili, la gente pagava due tazze di caffè: una per sé stessa ed una per chi non poteva permetterselo.

Lo scrittore Luciano De Crescenzo lo spiega con queste parole: “Quando qualcuno è felice a Napoli, paga due caffè: uno per sè stesso ed un altro per qualcun altro. E’ come offrire un caffè al resto del mondo …

 

IL LIMONCELLO 

Andando a ritroso nel tempo, nella valle dell’Indo (l’attuale Pakistan), già nel 2000 a. C. c’era una popolazione che conosceva il limone. Apparve poi in Grecia e alcuni ritrovamenti fatti nella zona degli scavi di Pompei, farebbero pensare che il limone era già conosciuto in epoca romana.

La sua riscoperta fu nell’anno mille, quando gli arabi che ne facevano uso sia alimentare che terapeutico, lo diffusero in Medio Oriente. In seguito i Crociati ed i pellegrini di ritorno dalla Terrasanta fra l’XI e il XII secolo, portarono alberelli di limone nel sud Italia e, grazie alla vocazione mercantile di Amalfi, l’agrume arrivò in altri territori della penisola.

Il liquore nacque proprio agli inizi del 1900 in una piccola pensione dell’Isola Azzurra dove la signora Maria Antonia Farace curava un giardino di limoni e arance. Il nipote, nel dopoguerra, aprì un ristorante vicino alla villa di Axel Munthe e la specialità del bar era proprio il liquore di limoni fatto con la ricetta della nonna.

Ma anche a Sorrento e ad Amalfi ci sono leggende e racconti sulla produzione del tradizionale limoncello.

Come spesso accade, la verità è nebulosa e le ipotesi sono tante e tutte molto suggestive.

Qualcuno sostiene che il limoncello veniva utilizzato dai pescatori e dai contadini al mattino per combattere il freddo, già ai tempi dell’invasione dei saraceni. Altri, addirittura, ritengono che la ricetta sia nata all’interno di un convento monastico per deliziare i frati tra una preghiera e un’altra.

Come vedete la verità non la sapremo mai!

Quindi, non ci resta che gustare questo liquore dolce, ottenuto dalla macerazione in alcol etilico delle scorze di limone, miscelata in seguito con uno sciroppo di acqua e zucchero.

https://www.youtube.com/watch?v=M0JGbGDRyR8

Il termine “limoncello” deriverebbe da un vezzeggiativo della parola “limone” e si riferiva inizialmente ad una varietà di limoni di dimensioni più contenute.

Secondo il “Vocabulario de las dos lenguas Toscana y Castellana” di Cristóbal de Las Casas, il termine limoncello era già in uso nel 1590.

La terza edizione (1691) del vocabolario degli Accademici della Crusca riporta il termine limoncello con il significato  (o accostamento) di “acqua cedrata”.

Per chi volesse provare a fare il limoncello a casa, vi lascio un breve video con la ricetta: https://www.youtube.com/watch?v=rR4qLmpJdh0

LA PASTA 

Se ti dico “Italia” qual è la prima cosa che ti viene in mente? Scommetto che “pasta” e “pizza”.

Ebbene sì! Lunga, corta, magra, larga, attorcigliata, arricciata, pizzicata, legata: la pasta in tutte le sue gloriose forme è onnipresente in Italia.

Il mito vuole che sia stato Marco Polo a portarla in Italia dopo il suo viaggio in Cina, ma ci sono prove che la pasta esisteva già nel Bel Paese.

Gli inizi della  pasta risalgono alla Cina, in cui i “noodles” a base di riso e altre farine, erano l’alimento base sia in Cina che tutta l’Asia nell’antichità.

Alcuni documenti suggeriscono che gli arabi originariamente introdussero i “noodles”  nei Paesi del Mediterraneo nell’VIII secolo e si sa dell’influenza culinaria araba nella cucina siciliana.

Dal XII secolo  l’uso del grano duro fu necessario per produrre  una pasta  più robusta che, assieme alla nuova tecnica di essicazione (favorita sia dal clima soleggiato della Sicilia e dell’Italia meridionale che dalle fresche brezze marine), resistesse all’ebollizione mantenendo consistenza e gusto gradevoli.

Infatti, la pasta fresca è tipica delle regioni settentrionali del Paese e viene preparata con acqua, farina e uova, e consumata “fresca”, cioè ancora “morbida”.

La pasta secca, invece, utilizza solo semola di grano duro e acqua, ed è realizzata con trafile al bronzo che le conferiscono una consistenza particolarmente ruvida, perfetta per trattenere meglio il sugo. Fondamentale per questo tipo di pasta è il processo di essiccazione, che la rende più durevole nel tempo.

La pasta allora era considerata il cibo degli aristocratici per via degli alti costi di manodopera: il grano duro doveva essere pestato all’infinito da lavoratori scalzi, ridotto in particelle delicate tali da creare un impasto.

Nel 1600 incominciò la produzione meccanica della pasta a Napoli, il che la rese di facile accesso e si diffuse rapidamente in tutta Italia. Dal 1700 al 1785 nella sola Napoli le botteghe di pasta passarono da 60 a 280.

Pasta e sugo di pomodoro è un connubio perfetto ma, bisognerà aspettare fino al 1893  per trovare la prima ricetta documentata.

E’ risaputo che Gioachino Rossini era un amante della buona cucina e gli vengono attribuite alcune frasi come questa: “l’appetito è per lo stomaco quello che l’amore è per il cuore”.

Ascoltiamo, e prendiamo nota, di questa sua ricetta dei “maccheroni alla Rossini”:

https://www.youtube.com/watch?v=L73TDsHxV8k&list=PLVFUVm52Uk-Lbvt8Mun6Va-rt1HxT6XSf

Anche se gli italiani non possono rivendicare la sua invenzione, possono rivendicare inequivocabilmente la proprietà della storia d’amore dell’Italia con la pasta che viene mangiata oggi in tutto il mondo e la fa da protagonista anche in alcune scene indimenticabili del cinema italiano.

Salutiamoci con un sorriso guardando questo siparietto sulla pasta con le sarde dei  comici siciliani Ficarra e Picone:

https://www.youtube.com/watch?v=gAW26q-t25A

IL PROSECCO

Una delle tante eccellenze italiane è quella dei vini. Oggi – anche se non dobbiamo brindare ad un incontro come cantava Peppino Di Capri – ci occuperemo del Prosecco.

Il Prosecco è un vino bianco a Denominazione di Origine Controllata (DOC) prodotto in Veneto e Friuli-Venezia Giulia nelle colline di Conegliano Valdobbiadene, che dal 2019 sono state inserite nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO: https://www.youtube.com/watch?v=4k9sxwEnBiE

Nell’antichità veniva decantato il vino “pucino” ed ai primi del Cinquecento la “ribolla”, prodotta a Trieste, venne dichiarata erede naturale del pucino per dare maggiore visibilità a questo prodotto che era inviato, appunto da Trieste,  in quantità alla casa d’Asburgo. Più tardi fu necessario distinguerla da altri vini prodotti a Gorizia e venne definita la caratterizzazione derivante dall’identificazione del luogo di produzione.

Esistono tre tipologie di Prosecco: il Prosecco propriamente detto, chiamato anche tranquillo; il Prosecco spumante ed il Prosecco frizzante.

In tutti i casi si tratta di un vino dal colore giallo paglierino, dall’odore fine e dal sapore fresco. La variante spumante può essere brut, extra-dry o dry, mentre le altre sono solo secche.

Qual è la differenza tra prosecco e spumante? Lo spumante può essere prodotto in qualsiasi zona e con qualsiasi vitigno. Il prosecco, invece, che è una DOC può essere prodotto solo in alcune zone del Veneto e del Friuli Venezia Giulia e dai vitigni Glera, Verdiso, Pinot bianco, grigio o nero e soltanto con metodo Charmat (questo metodo prevede che la seconda fermentazione avvenga in vasche d’acciaio inox e non in bottiglia).

Lo Champagne, invece, viene fermentato secondo il tradizionale metodo “champenoise”, in base al quale la seconda fermentazione avviene in bottiglia.

In questo brevissimo video si può apprezzare il percorso dalla vigna al calice:

https://www.youtube.com/watch?v=Zt2XerE8P5E.

 

Il Prosecco ormai è entrato a far parte della vita quotidiana degli italiani: come aperitivo (da solo o accompagnato da tartine con salmone o caviale, patè o formaggi e salumi), come vino da pasto (si abbina benissimo con moltissime varietà di pesce e con verdure come asparagi e radicchio trevisano).

E con il dolce? Con il dolce, proprio no! In questo caso le regole degli abbinamenti seguono il principio della concordanza, ovvero dolce con dolce.

 

TOPINAMBUR 

Oggi prendiamo di mira il topinambur, chiamato anche rapa tedesca, carciofo di Gerusalemme o girasole del Canada. In realtà il suo nome scientifico è “helianthus tuberosus” che deriva da due parole greche “helios” (sole) e “anthos” (fiore) in riferimento alla tendenza di queste piante a girare sempre verso il sole.

E’ una pianta perenne, il cui organo di sopravvivenza è un tubero da un anno al successivo, il quale viene usato come ortaggio e per questo viene chiamata anche “patata topinambur”.

I tuberi di topinambur si prendono in inverno, sono molto nutrienti e grazie al contenuto di inulina è una pianta molto indicata nella dieta di persone diabetiche.

Per chi fosse  interessato ad usarlo in cucina, la loro cottura è simile a quella delle patate. Possono essere consumati anche crudi con sale e pepe. Nella cucina piemontese sono tipici con la bagna càuda, con la fonduta o anche trifolati, mentre in quella siciliana trovano un uso sporadico nella farcitura di focacce.

Nella regione tedesca del Baden-Württemberg il topinambur viene utilizzato per produrre un liquore chiamato “Topi” considerato un digestivo.

A dimostrazione che anche di un tubero si può parlare poeticamente, vi lascio il link di  un breve video in cui l’attore Paolo Triestino legge un brano tratto dal libro “Suite bohémien” di Alessandra  Bernocco: https://www.youtube.com/watch?v=4Kk1jCdORMY&feature=share&fbclid=IwAR3quMqTwuzlPPnK53qw3a295t9AQ_bB4P_J1BMnbAx1Wx0NYWnnY8ufhFU

IL BAROLO

Vinum regum, rex vinorum“, cioè  vino dei re e re dei vini. Da secoli è questa l’espressione che accompagna il Barolo, uno dei vini rossi più noti in Italia e nel mondo.

La storia del Barolo ha inizio 2500 anni fa: i primi estimatori di questo vino  furono i Galli ed in seguito i Romani  restarono colpiti dalla qualità del vino della zona di Alba (allora Alba Pompeia).

In alcuni documenti storici del 1268, conservati al castello di Rivoli, si cita l’uva del Nebbiolo. Ma la sua coltivazione e la produzione del vino si sviluppò nel Rinascimento.

Il Barolo cominciò ad avere notorietà nel 1751 quando un gruppo di diplomatici piemontesi spedì a Londra una partita di quel vino ed ebbe  grande successo ed il futuro Presidente degli Stati Uniti Jefferson lo definì “quasi amabile come il Bordeaux e vivace come lo Champagne”.

Il Barolo moderno nasce intorno al 1830. I Falletti avevano importanti proprietà terriere nel Comune di Alba dal 1250. Alla morte di Carlo Tancredi Falletti, la sua vedova acquisì tutte le proprietà della famiglia, chiamò l’enologo francese Louis Oudart che applicò le tecniche usate per i grandi vini francesi sul vino prodotto in quelle terre.

Anche i Savoia acquisirono terre nella zona di Alba e si dedicarono alla produzione di vino ed il Barolo divenne il vino ufficiale dei banchetti.

Camillo Benso, conte di Cavour, chiamò Louis Ourdart a curare il vino nelle proprietà di famiglia nella zona. E così che nacque lo stile moderno del Barolo che, per la prima volta nel 1844, venne imbottigliato come vino secco e fermo.

Come servire il Barolo? La temperatura ideale è di 18-29 gradi e gli abbinamenti più tradizionali sono quelli con piatti a base di carne rossa, come arrosti, brasati, selvaggina, ma anche formaggi stagionati a pasta dura.

Se parliamo di vino non possiamo non ricordare la parola d’ordine “Cin-cin” che ha un lontano origine in Cina.

Durante il regno dell’ultima dinastia cinese dei Qing (1644-1912). Era un’abitudine tipicamente cinese  offrire del tè agli ospiti marinai e commercianti durante le trattative usando l’espressione qing.

Il suono piacque così tanto agli inglesi che ne fecero un saluto un po’ scherzoso, con il senso di ‘buona giornata’, diffondendolo prima nell’Inghilterra vittoriana e poi gradualmente in tutti i Paesi europei.

Non si sa con esattezza quando il ‘cin cin’ sia stato introdotto in Italia, presumibilmente bisogna risalire all’inizio del XX secolo, come in Francia.

IL CIBO NELL’ ARTE 

Ovunque troviamo programmi televisivi dedicati alla gastronomia: chef che preparano e ci insegnano a cucinare pietanze di tutto il mondo e concorsi per dilettanti o aspiranti a cuochi.

 

Mangiare con gli occhi, avere l’acquolina in bocca, divorare con lo sguardo, consumare un matrimonio, nutrire appetiti sessuali, partire per la luna di miele, come vediamo il nostro comune modo di esprimerci è tempestato da locuzioni gastronomiche.

Mangiare e’ un atto indispensabile: mangiamo per nutrirci, ma anche per stare insieme, per interagire con chi ci sta accanto e con l’ambiente.

Con l’atto del “far da mangiare” nutriamo corpo e spirito, trasformiamo materie prime e cuociamo alimenti. Vediamo il cibo non solo come bisogno primario, ma anche come materia plasmabile, da ammirare, da offrire, da percepire con tutti i sensi. Cibo per godere dei piaceri della vita.

 

Da sempre, il cibo ha ricoperto un ruolo molto speciale nelle opere d’arte di tutte le epoche.

Nell’arte preistorica la rappresentazione dell’approvvigionamento del cibo acquista significati magico-propiziatori.

La vitalità che trapela dalle raffigurazioni murali delle tombe etrusche è  la testimonianza visiva di una comunità gaudente e ricca, che riusciva a trasferire nell’aldilà le abitudini di vita del defunto ricreando l’ambiente nel quale  aveva vissuto, anche con strumenti e suppellettili della cucina.

Nella società romana il banchetto costituisce un comune denominatore tra il mondo terreno e l’aldilà. Pitture, sculture e arredi funerari ritraggono spesso il defunto banchettante e sdraiato.

Nel periodo imperiale la simbologia del banchetto allude alla caducità della vita e invita al pieno godimento dei piaceri della tavola.

Nel periodo cristiano il banchetto assumerà un diverso significato, strettamente rituale. Nelle catacombe romane dei S.S. Marcellino e Pietro si trovano diversi affreschi raffiguranti banchetti in cui il vino è protagonista e simbolo dell’agape.

Nell’alto Medioevo il cibo era considerato dono di Dio e frutto di duro lavoro e quindi abbondano scene agricole e di trasformazione delle materie prime.

Solo nel tardo Medioevo appaiono scene di banchetti, feste, osterie, tavole imbandite.

Da sempre il cibo rappresentato nel quadro ha rivelato lo status sociale dei suoi protagonisti (pane e legumi per i poveri, dolci e selvaggina per le classi elevate).

Tra il 1500 ed il 1700 l’arte rappresenta l’alternarsi dei periodi di abbondanza e carestia che hanno accompagnato l’esistenza dell’uomo.

Arriviamo al XX secolo, siamo negli anni ’60. Nonostante siano gli anni del boom economico in Italia, Rita Pavone porta al successo una canzone che evoca un piatto povero della cucina contadina toscana, “La pappa col pomodoro” (https://www.youtube.com/watch?v=TZ5Zwrcvvaw).

I tempi sono cambiati e oggi  la pappa al pomodoro non è più considerata un piatto povero, anzi viene consigliata come molto salutare da medici e dietologi.

L’origine contadina di questo primo piatto è testimoniata dai suoi ingredienti semplici: pane toscano raffermo, pomodori freschi, aglio, basilico, olio extra vergine di oliva, sale e pepe.

Dato che in questo periodo di isolamento tutti passiamo più tempo in cucina, vi lascio il link con la ricetta (è molto facile) nel caso qualcuno di voi volesse prepararla: https://www.cucchiaio.it/ricetta/ricetta-pappa-pomodoro/.

E poi, ovviamente, mandateci una foto del vostro capolavoro!

Un’informazione importante per le signore: ogni porzione di pappa al pomodoro ha soltanto 70 calorie!

 

PANE TOSCANO

Sandro Botticelli e Leonardo da Vinci, dopo il loro incontro nella bottega del Verrocchio, avrebbero cementato l’amicizia aprendo un’osteria chiamata “Tre rane” sul Ponte Vecchio a Firenze. La clientela sceglieva il menù, sia leggendo le pietanze scritte da destra a sinistra dal mancino Leonardo, sia indicando le immagini disegnate dal Botticelli. L’elenco delle portate era molto ricco: dalla ribollita all’arista, dal baccalà ai ranocchi fritti. Ma – nonostante l’inventiva di Sandro e Leonardo –  l’osteria non ebbe lunga vita facendo perdere tracce di sè.

Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina, umanista e gastronomo italiano di quell’epoca, consigliava di tenere le rane (debitamente spellate e private della bile) per un giorno ed una notte nell’acqua fresca. Dopodichè asciugarle bene, infarinarle e metterle in una padella con abbondante olio caldo. Salare, pepare e far rosolare bene le rane da entrambe le parti, avendo cura di muoverle spesso. In una scodella battere delle uova con sale, pepe e limone; versare il composto sui ranocchi e completare la cottura a fuoco basso senza muovere la frittata.

Ciò che non ci dice è che sicuramente questa pietanza si accompagnava con dell’ottimo “pane toscano”, che a tutt’oggi è una delle eccellenze della cucina italiana e che gode del marchio “DOP” (Denominazione di Origine Protetta).

La storia italiana della panificazione è lunga e ricca. Gli etruschi, tra i primi italiani, adornavano le loro elaborate pareti tombali con scene di banchetti che includevano la macinatura dei grani.

Il pane toscano DOP ha un aspetto rustico, con linee spolverate di farina e una crosta color nocciola ed è insipido perché senza sale.

La leggenda racconta che, durante uno dei contrasti dovuti alla rivalità tra Pisa medievale e Firenze, il fiume Arno fu bloccato dall’esercito pisano, tagliando così la consegna di sale a Firenze. Ma i fiorentini continuarono a cuocere il pane … senza sale!

Un’altra spiegazione ci dice che il sale, un bene prezioso durante il Medioevo per la sua capacità di conservare gli alimenti, è stato tassato in eccesso. Il popolo non poteva permetterselo e, quindi, il pane quotidiano era fatto senza sale.

 

Vi lascio il link con la ricetta per fare il pane toscano a casa nel caso qualcuno di voi volesse cimentarsi in cucina: https://www.lacucinaitaliana.it/tutorial/i-consigli/pane-toscano/ perché sono sicura che nessuno di voi avrà il coraggio di preparare le rane … o sbaglio?